Il bacino del Mediterraneo e l’Italia. Gli impatti del cambiamento climatico con focus sulla risorsa idrica e il rischio da eventi estremi.

Carlo Cacciamani, fisico e meteorologo, ItaliaMeteo

 

Nel contesto del cambiamento climatico a scala globale, il bacino del Mediterraneo è definito un “hot spot”, in quanto manifesta segnali di cambiamento climatico anche maggiore della media globale. Una delle ragioni che giustifica tale peculiarità è che la zona di confine climatico, geografico, socio-politico ed economico tra le medie latitudini e le aree tropicali nella fascia longitudinale dove si colloca anche l’area mediterranea, ha subito uno spostamento di qualche centinaio di chilometri verso nord, in gran parte legato alla modifica a scala planetaria dell’intero assetto della circolazione atmosferica globale, a sua volta generata dal riscaldamento globale. Questo spostamento latitudinale produce più frequenti e persistenti estati più calde e siccitose, rispetto al passato, intervallate da più brevi periodi, fortemente perturbati. 

I trend di temperatura e precipitazione, valutati in questa area del Pianeta mostrano delle modifiche molto rilevanti, sia nei valori medi che negli estremi: per la temperatura è evidente un inequivocabile ed elevato segnale di aumento che si protrarrà nei prossimi decenni, maggiore di quello presente a scala globale, in particolare per i valori massimi estive. Le precipitazioni mostrano dei segnali di diminuzione, maggiori d’estate, anche se gli estremi, al contrario, sembrano aumentare in termini di frequenza di occorrenza ed intensità, in particolare per quanto riguarda gli eventi di breve durata ed elevata intensità. Tale quadro pluviometrico è destinato a mantenersi, e ad acuirsi, nei prossimi decenni. La ragione principale che spiega i maggiori apporti di pioggia in tempi rapidissimi è duplice: da un lato una atmosfera più calda può contenere un maggior contenuto di vapord’acqua, come spiegano le leggi delle Termodinamica, dall’altro può divenire più termodinamicamente “instabile”, e quindi più idonea a veder in essa innescati eventi convettivi intensi. E’un po’ come capita all’acqua in una pentola che viene scaldata in un fornello. Il calore fornito prima si trasferisce per conduzione dagli strati più in basso verso quelli più in alto, poi ad un certo punto tale trasferimento non è più efficace e si innescano i fenomeni convettivi, ben visibili nel momento dell’ebollizione. In tal modo il calore si propaga dal basso verso l’alto in maniera molto più efficace. Stessa cosa avviene in atmosfera. Si potrebbe dire, usando una metafora che rende bene l’idea, che il cambiamento climatico fa “bollire” l’atmosfera più frequentemente di prima. E quindi, temporali sempre più intensi ed in grado di far piovere ingenti quantità di acqua in poco tempo. 

Se, come già detto, queste situazioni di maggiore “instabilità” sono destinate ad aumentare di frequenza in futuro per via del riscaldamento, allora c’è da attendersi un’altrettanto maggiore frequenza di eventi intensi, rispetto ad oggi e ai decenni passati. La prima conseguenza di tutto ciò sarà quindi la crescita del rischio idrologico-idraulico che si accompagnerà, come rovescio della medaglia che può apparire quasi paradosasle, ad un aumento delle ondate di calore e degli episodi siccitosi, con impatti gravi sulla disponibilità e gestione della risorsa idrica. E poi anche sulla produzione e distribuzione di energia, la sostenibilità degli ecosistemi ambientali e la biodiversità, animale e vegetale. 

Per quanto concerne il bacino del Mediterraneo, e quindi anche il nostro Paese, con il quadro climatico fin qui descritto che può attenderci, si potrebbero configurare delle condizioni di clima sempre più simili a quelle del Nord Africa, che si potrebbero protrarre per periodi lunghi dell’anno, intervallate da brevi precipitazioni intensissime, e quindi rischio idrogeologico crescente. Evidenze di questi cambiamenti sono già visibili, non sono solo un rischio futuro. Ad esempio, relativamente alle possibili maggiori siccità, in Italia nel 2017 abbiamo rilevato la terza grave crisi idrica in soli dieci anni (2006-7, 2011-12 e 2016-17), collegata ad un prolungato e anomalo numero di giorni caldi e senza precipitazioni o quasi. In questo anno 2022 abbiamo avuto una nuova situazione di siccità estremamente critica, con deflussi sui maggiori fiumi italiani, ridotti ai minimi storici. Queste situazioni non costituiscono ormai più una eccezionalità, come forse poteva apparire nell’estate 2003, che rimane ancora la più calda degli ultimi decenni, ma rappresentano un segnale di modifica del clima che sta trasformando l’eccezione in regola. Sempre in riferimento all’estate del 2017, si sono osservati nel periodo e in diversi punti del territorio nazionale il superamento, continuato per diversi giorni, di 40 gradi di temperatura massima giornaliera. Valori questi che solo negli anni ’80 del secolo scorso ci avrebbero traumatizzato e che oggi, invece, ci appaiono quasi normali.

Quindi: meno pioggia in media, più caldo e più eventi intensi. Lo “slogan-scioglilingua” che si potrebbe lanciare per questa nuova “tipologia” di clima, e che rende bene l’idea per l’area del Mediterraneo, è che: “piove di meno, ma quando piove, piove molto di più”.

Come già accennato, più eventi estremi vuol dire maggiore pericolosità. Maggiore pericolosità che si abbatta in aree fortemente vulnerabili ed antropizzate vuol dire maggior rischio, dal momento che, come ben noto, per l’appunto il rischio è il prodotto di pericolosità, vulnerabilità ed esposizione. Diverse sono poi le tipologie di rischio, indotte da questi nuovi scenari di pericolosità. Certamente un aumento degli estremi termici produce un aumento del rischio di “incendi boschivi”, ed anche un maggior rischio di dissesti e frane, oltre che di alluvioni.  

Relativamente al rischio da incendi boschivi in area Mediterranea, che potrebbe aumentare a causa di condizioni climatiche più aride, le aree a maggior rischio sono le zone più settentrionali dell’Europa mediterranea, come Italia del Nord, Francia, Catalogna, i cui ecosistemi si sono adattati meno nei secoli passati alla progressiva siccità che l’area sta sperimentando. Per di più la maggior frequenza e intensità di condizioni siccitose attese per il prossimo futuro ridurrà l’efficacia delle strategie di prevenzione attuali e richiederà lo sviluppo di nuove metodologie di controllo sovra-nazionali. 

Aumentate condizioni di rischio implicano maggiori e più frequenti danni alle infrastrutture, all’ambiente, per non parlare poi delle molte vittime che tali eventi purtroppo causano. 

 

Le azioni di adattamento al cambiamento climatico necessarie per riduzione del rischio da alluvione.

Si è già detto della crescente frequenza e intensità dei fenomeni estremi, che potranno avere grandi impatti su diverse condizioni di rischio. Non costituiscono oramai più una rarità gli eventi in cui diverse centinaia di mm di pioggia si scaricano in pochissime ore su aree molto limitate, come ad esempio accadde nell’alluvione di Genova nel 2014, oppure in Val Nure sul Piacentino il 14 settembre dell’anno successivo, oppure a Livorno nel settembre 2017. L’elenco è veramente lunghissimo. In questi casi la pioggia molto intensa non viene assorbita dai terreni in maniera efficiente, e quindi produce alluvioni lampo (le disastrose “flash flood”) e causa dissesti, frane e allagamenti. E quindi, danni ingenti e in molti casi anche vittime. Il cambiamento climatico ha aumentato, in frequenza, queste condizioni di rischio e va considerato quindi una “variabile aggiuntiva” che entra nella legge del rischio, e se ne dovrà sempre più tener conto, in futuro. 

Tale rischio può essere ridotto attraverso l’attuazione di precise azioni di adattamento che devono accompagnarsi alle politiche di mitigazione, cioè riducendo le emissioni di gas serra, che agiscono sulle cause antropiche del riscaldamento climatico. 

Per ridurre il rischio di danni da alluvioni ci si muove in due direzioni: attraverso azioni di tipo strutturale e non strutturali. La prima modalità si attua nel “tempo differito”, e rientra nell’ambito delle azioni di pianificazione territoriale, la seconda si attua nel “tempo reale”, cioè in corso di evento. Relativamente alla prima modalità, le Autorità che si occupano di questa materia sono le Autorità di Distretto idrografico e le Regioni, attuando i “Piani di Assetto Idrogeologico” (PAI), in ottemperanza alla Direttiva Europea 2007/60CE che tratta il tema della riduzione del rischio alluvione. Queste azioni si attuano ad esempio attraverso la costruzione di “opere” di difesa dei territori dalle inondazioni. Esempi di queste sono la costruzione e il rafforzamento delle arginature dei fiumi o la costruzione di opere idrauliche, come ad esempio le “casse di espansione”, che sono aree e territori dove poter invasare l’acqua dei fiumi in piena a monte degli insediamenti urbani, e quindi ridurne il deflusso. La progettazione e attuazione di queste opere richiede tempo e molto denaro e spesso anche grandi sforzi per “convincere” le popolazioni, dal momento che permettere ad un’area di essere “allagata” significa di fatto rinunciare a quell’area, che non potrà avere al suo interno insediamenti urbani o strade, ferrovie o industrie.

La seconda modalità “non strutturale” di riduzione del rischio, si attua come detto nel tempo reale, e permette di ridurre quella parte residuale di rischio che le azioni strutturali non possono eliminare, anche perché molto spesso riguardano anche i “comportamenti” delle persone. Queste azioni si realizzano con i sistemi di monitoraggio e di preannuncio idro-meteorologico (detti anche “EarlyWarningSystems-EWS“). 

In Italia gli EWS sono governati dal sistema di allertamento nazionale per rischio idrogeologico, istituito con Legge dello Stato (Il Decreto Legislativo n. 1 del 2/1/2018 che recepisce una Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27/2/2004) e che si fonda sulle attività operative della rete dei Centri Funzionali centrale (CFC) e decentrati (CFD), che operano in maniera strettamente coordinata, il primo interno al Dipartimento della Protezione Civile Nazionale, gli altri inseriti nelle Regioni.  Nei centri funzionali operano meteorologi, idrologi, geologi, esperti di comunicazione, che producono e diffondono le “allerte” di protezione civile, attraverso un’analisi congiunta della pericolosità idro-meteorologica che conduce alla successiva valutazione del rischio probabile nell’immediato futuro. 

La valutazione del “rischio” e non solo della “pericolosità” è una peculiarità del sistema italiano. La pericolosità rappresenta la probabilità che avvenga un fenomeno naturale, anche magari molto avverso (meteorologico, come un fortissimo temporale ad esempio, oppure idrogeologico, come una frana o una piena fluviale), il rischio invece rappresenta la probabilità che, a fronte di quel fenomeno pericoloso, si possa verificare un danno su un certo territorio. E perché si verifichi un danno, deve esistere una vulnerabilità in quel territorio, come ad esempio la presenza di frane e dissesti, oppure di arginature fragili. Ed inoltre sempre su quel territorio vulnerabile deve esistere anche un “esposto” al rischio: un paese, una strada, un insediamento industriale ecc…. Non esiste quindi rischio senza pericolosità, ma non esiste rischio anche senza vulnerabilità o esposizione. Non è quindi una pioggia intensa che crea il danno e magari arriva ad uccidere una persona, è l’impatto che quella pioggia intensa determina su un versante dove si trova una frana che può distaccarsi, e distruggere le abitazioni sottostanti. In quelle abitazioni ci vivono delle persone che, se sanno “leggere” bene, essendo state preparate opportunamente, sapranno mettersi in sicurezza, in caso di rischio. Il punto quindi della consapevolezza è altrettanto cruciale della capacità di allertare.  

Quanto sopra esposto lascia intendere quanto la valutazione e la gestione del rischio siano attività complesse, che richiedono conoscenze e competenze di tipo diverso. Ad esempio, nel caso di rischio da alluvioni, sono necessari i meteorologi che valutano la pericolosità “meteo”, ad esempio connessa ad una pioggia intensa prevista in una data area geografica per un certo giorno, gli idrologi che a partire da quella previsione di pioggia eseguono una valutazione idrologica del deflusso che viene a crearsi sul bacino idrografico che intercetta quella pioggia, poi servono gli esperti di difesa del Suolo che conoscono la vulnerabilità del territorio, i tecnici dei vari presidi idraulici e dei Comuni che hanno il quadro dell’antropizzazione di quel territorio e i punti più esposti al rischio. Infine è necessario il cittadino “resiliente”, che sappia come “difendersi” dai rischi, quando accadono. La “filiera” è assai lunga, come si vede, e richiede oltre alla multidisciplinarietà e la condivisione di competenze anche notevoli capacità di relazionarsi tra tecnici che hanno conoscenze del tutto diverse, in molti casi.

Nel nostro Paese, ogni giorno, presso i Centri Funzionali Centrale (CFC) e decentrati (CFD) viene realizzata prima una valutazione meteorologica a livello nazionale, fortemente orientata a dare supporto al Sistema di Protezione Civile, e che produce un “bollettino di vigilanza nazionale”; successivamente viene prodotta dai CFD una  valutazione delle possibili criticità relativamente ai possibili scenari di rischi idraulico e idrogeologico, che poi è assemblata a livello centrale dal CFC nel “Bollettino di criticità nazionale/allerta”. Questa valutazione di “Allerta” così realizzata viene poi diffusa da Regioni e Province autonome ai Comuni, e quindi ai cittadini, attraverso diversi canali di diffusione (web costruiti ad hoc, application per smartphone…).  Le Allerte sono codificate e diffuse facendo uso di “codici colore” (verde, giallo, arancione e rosso) che rappresentano una intensità crescente di rischio e che permettono all’Autorità a valle (il Sindaco ad esempio) di decidere l’azione di contrasto, via via più importante a seconda del livello di allerta. 

Quando l’Autorità a valle, il “decisore”, per fissare le idee un Sindaco di una città o di un paese, riceve un’allerta gialla, o arancione o rossa, deve mettere in campo delle azioni di contrasto preventive per mitigare i danni potenziali di quell’evento avverso, nel caso esso si realizzasse. Le azioni di contrasto più idonee devono essere definite in documenti importanti che si chiamano Piani di Protezione Civile che devono essere realizzati da ogni Comune ed essere noti ai cittadini. 

Le azioni di contrasto da attuare per ridurre i rischi non possono prescindere da attente analisi costo/danno e devono tener conto del livello di incertezza delle allerte, che essendo diffuse “in previsione”, risentono dell’incertezza intrinseca della previsione meteorologica e idrologica che ha permesso di stabilire il livello di pericolosità, ed anche della incerta conoscenza della vulnerabilità e esposizione. 

Tali azioni sono da valutare non certo durante gli episodi a rischio ma molto prima, in “tempo di pace” come si dice talvolta, lontano dagli eventi a rischio. 

Nel corso del tempo il sistema di allertamento nazionale si è sviluppato ed oggi ha acquisito la struttura di una rete federata abbastanza ben oliata e funzionante, seppur con ampi margini ancora di miglioramento, in particolare per quanto concerne il coinvolgimento dei cittadini, che ancora appaiono abbastanza “distanti” da tali dinamiche. Perché questo non avvenga, è necessario che le popolazioni siano adeguatamente formate sui temi della “gestione del rischio”, degli impatti dei cambiamenti climatici, affinchè divengano anche parte attiva e cosciente della costruzione dei piani di protezione civile dei luoghi dove vivono. In definitiva, in futuro sarà sempre più essenziale operare su tre gli assi portanti, come rappresentato nella Figura: 1) è necessario migliorare i sistemi di preannuncio attraverso una promozione della ricerca di settore (meteo, idro, valutazione dei danni ecc..); 2) è necessario far uso dei migliori e più rapidi sistemi di comunicazione ai cittadini, attraverso tutte le nuove tecnologie disponibili (smartphone, siti web dedicati, massiccia presenza suo mass-media…); 3) è infine necessario far crescere la “cultura del rischio” e la “resilienza” delle comunità, attraverso specifiche attività di formazione, efficaci e capillari. Questo processo va realizzato in fretta, perché il cambiamento climatico è già in atto e sta già modificando le condizioni di rischio. Ad esempio per ottimizzare l’azione 1 molto potrà fare la nuova Agenzia ItaliaMeteo, istituita con la legge n.205/2017, allo scopo di mettere a sistema tutto quello che oggi “esiste” in Italia in termini di monitoraggio e previsione meteorologica.  

Una delle condizioni affinché questi processi possano attuarsi è che le comunità si parlino di più, al loro interno, e che sviluppino percorsi di confronto tra tecnici di competenze diverse, e tra tecnici e cittadini. La crescita della resilienza delle popolazioni può avvenire solo attraverso un grande progetto che ricostruisca spazi di incontro tra le persone, che permetta loro di scambiarsi conoscenze e competenze attraverso un dialogo reale, fisico, e non solo virtuale con l’uso (e spesso abuso) dei social network, che le rende, alla fine, solo più sole e quindi, anche più vulnerabili. La “politica” ha un grande ruolo per permettere lo sviluppo di queste azioni: per rafforzare il ruolo della “scuola” che è fondamentale per lo sviluppo delle nuove competenze che servono, per rafforzare il monitoraggio meteo climatico, per migliorare la resilienza dei territori, garantire una loro maggiore sicurezza (ad esempio nei confronti del rischio idraulico).